Leggendo Vita tra i selvaggi viene da chiedersi come abbia fatto Shirley Jackson a diventare Shirley Jackson. E viene da chiedersi anche come sia riuscita a mantenere certi scatti violenti solo sulle pagine dei suoi romanzi e racconti e non fracassare sul serio un posacenere sulla testa del marito per poi scappare esasperata da quel caos di bambini urlanti, gatti, cani, una casa perennemente in disordine e la frustrazione delle proprie ambizioni di fronte ai doveri domestici. Andiamo con ordine: Vita tra i selvaggi (Life Among the Savages) approda in libreria per Adelphi tradotto in maniera superba da Monica Pareschi e apre una porta ulteriore sul mondo letterario e personale di questa scrittrice poliedrica che critica e lettori troppo spesso finiscono per ridurre a un solo elemento, quello del gotico-perturbante.
Apparso per la prima volta nel 1953 dopo che Jackson aveva già pubblicato The Road Through the Wall nel 1948 (La strada oltre il muro), The Lottery and Others Stories, 1949 (La lotteria) e, nel 1951 Hangsaman, Life Among the Savages è un testo ibrido, un memoir di fictionalized stories che il critico Ruth Franklin definiva «autobiografico ma non necessariamente vero», a sottolineare la natura di una narrazione profondamente personale ma nella quale non mancano elementi di fiction. Un testo che arriva ora per la prima volta in traduzione italiana e che è l’occasione ideale per riflettere su alcuni aspetti della ricezione dell’opera di Shirley Jackson, su certe scelte editoriali e, più in generale, su un’autrice che negli ultimi anni ha conosciuto anche nel nostro Paese un interesse esponenziale da parte di critica e lettori. Prima però una doverosa premessa, o meglio, un suggerimento personale: se vi avvicinate per la prima volta a questa scrittrice non partite da Vita tra i selvaggi, meglio scoprirla per esempio con le due raccolte di racconti La luna di miele di Mrs Smith e Un giorno come un altro, oppure con i romanzi Abbiamo sempre vissuto nel castello, L’incubo di Hill House e La meridiana per esempio; questo che abbiamo tra le mani è un volume perfetto per i lettori di Jackson, per chi si è già addentrato – non importa quanto a fondo – nell’universo letterario di una scrittrice molto più poliedrica di quanto ne rendano conto certe letture ed etichette che le sono state appiccicate addosso.
Comunemente nota per i suoi scritti perturbanti in cui riecheggiano istanze del gotico o, più precisamente, dell’American Gothic Fiction, Shirley Jackson è stata anche autrice di sketch, pezzi umoristici, commedie domestiche come quelle appunto pubblicate su alcune riviste femminili e raccolte poi, nel 1953, nel volume Life Among the Savages. Ma con Shirley è vero tutto e il contrario di tutto e suddivisioni troppo rigide tra le sue opere non sono del tutto corrette: anche dove non ce la aspetteremmo troviamo infatti quell’ironia pungente che più marcata emerge in certi scritti ma non è del tutto assente nelle storie più gotiche o, al contrario, pure in questa commedia domestica appena pubblicata da Adelphi si possono rintracciare echi di quel gusto per il perturbante, qui senza dubbio più mansueto, addomesticato appunto, ma comunque esistente.
Vita tra i selvaggi dunque è un tassello fondamentale nella bibliografia dell’autrice, tradotto in italiano e per la prima volta da Monica Pareschi, già voce di molte altre opere di Jackson nel catalogo di Adelphi (altre traduzioni recenti sono di Silvia Pareschi e Monica Vinci): il lavoro di Pareschi è ancora una volta encomiabile, conferma della capacità di immersione totale nel testo, orecchio e cura artigiana per la parola che contraddistingue da sempre il lavoro della traduttrice milanese. In questo testo la voce di Pareschi restituisce tutta l’ironia sottile della prosa di Jackson e lo stile si modella sulla lingua dell’autrice e il momento preciso in cui il volume venne alla luce, dando forma a una narrazione radicata nel tempo – gli anni Cinquanta del secolo scorso – , tesa, fluida quasi fossero pensieri che si formano sulla pagina nel momento in cui li leggiamo.
Commedia domestica, dicevo poc’anzi: Vita tra i selvaggi è un testo profondamente autobiografico – un memoir sotto molti punti di vista – ma in cui si innesca anche l’invenzione letteraria, a rielaborare l’esperienza personale, quello spaccato di vita domestica che Jackson sceglie di raccontare a partire dal trasferimento della famiglia – inizialmente composta da lei, marito e i due figli, un maschio e una femmina – in una vecchia casa in Vermont. Sono storie come si accennava pubblicate sulle pagine di alcune riviste femminili dell’epoca e che raccontano la vita in una piccola comunità, la quotidianità domestica, la famiglia che cresce – altri figli si aggiungono ai due iniziali, innumerevoli gatti, un cane – le piccole nevrosi di ogni giorno.
Casa nostra è vecchia, rumorosa e piena zeppa. Quando siamo arrivati qui avevamo due figli e circa cinquemila libri; se tanto mi dà tanto, quando finiremo per esplodere e dovremo trasferirci di nuovo avremo una ventina di figli e almeno mezzo milione di libri; abbiamo anche un assortimento di letti tavoli sedie cavallucci a dondolo lampade vestiti di bambole modellini di navi pennelli e letteralmente migliaia di calzini. (incipit, p. 9)
L’ironia, si diceva, permea Vita tra i selvaggi e ne diviene la cifra caratteristica, con il narratore interno che è lei stessa: ben prima dei blog in cui raccontare in modo non edulcorato le fatiche di una donna occupata nella gestione domestica, il carico mentale e fisico, c’era Shirley Jackson che sulle riviste raccontava la sua famiglia sconclusionata, la stanchezza, le liti e le stramberie dei propri figli, il marito abbarbicato al sicuro nel suo studio, le idiosincrasie di due ruoli – moglie/madre e scrittrice – che faticavano a conciliarsi. Lo faceva con intelligenza, uno stile narrativo preciso, infrangendo qualche tabù a partire dall’ideale della perfetta padrona di casa, moglie e madre appagata con una torta di mele a raffreddare sul davanzale e in perfetta armonia con i componenti della sua famiglia e la vita scelta. A rendere infatti particolarmente interessanti queste storie – continuo a chiamarle così, non sono racconti in senso stretto – è proprio la voce di Jackson e la limpidezza con cui fa a pezzi stereotipi e narrazioni di vite idealizzate.
I sentimentali insistono a dire che se le donne fanno un terzo figlio è perché adorano i bambini, e i cinici sostengono che una donna con due bambini sani e attivi in casa farebbe qualsiasi cosa per starsene dieci giorni in pace all’ospedale; io mi colloco più o meno a metà strada, anche se tendo verso la seconda possibilità. (p. 55)
Quelle narrazioni idealizzate della casalinga perfetta che oggi di nuovo imperversano grazie ai social media, vengono fatte a pezzi dalla penna di Jackson, che invita il lettore a dare un’occhiata alla sua casa caotica, le sue scarse doti domestiche, i salti mortali per far quadrare i conti, le imprese quotidiane di una famiglia in cui ogni responsabilità pare ricadere su Madre-Moglie. Ed è proprio lì la crepa: perché se è vero che l’ironia è l’aspetto più immediato a colpire il lettore di Vita tra i selvaggi, non può certo sfuggirci tutto quello che sta subito oltre, appena sotto la superficie. A partire da quella discrepanza tra vita domestica e professionale, ben esemplificata dalla celebre scena alla reception dell’ospedale dove si era recata per partorire la terza figlia:
«Nome?» chiese educatamente l’addetta, con la matita a mezz’aria.«Nome» ripetei incerta. Poi me lo ricordai, e glielo dissi.«Età?» chiese. «Sesso? Occupazione?».«Scrittrice» dissi io.«Casalinga» disse lei.«Scrittrice» dissi io.«Io metto casalinga» disse lei. (p. 62)
Una discrepanza, appunto, che caratterizza tutta la vita e la carriera di Jackson: alle prese con le responsabilità famigliari e il bisogno di conciliare la vita domestica con l’urgenza della scrittura, strappando due ore al giorno in cui essere Shirley Jackson la scrittrice. E solo lì diventare davvero sé stessa. In Vita tra i selvaggi non parla apertamente di questo, non vi si sofferma, ma è inevitabile leggervi tra le pieghe del quotidiano, le crisi isteriche dei figli, i doveri domestici e le assenze del marito, l’immagine di Jackson che conosciamo, quella della scrittrice: dal punto di vista narrativo trovo particolarmente interessante che non discuta apertamente di scrittura, ma bastano poche parole che sono stilettate a dare misura tanto della fatica del quotidiano quanto della difficoltà di essere riconosciuta come scrittrice. Se nell’ambiente letterario era Shirley Jackson – il suo cognome da nubile, quello con cui sceglie di pubblicare – in casa, tra la cerchia di amici e conoscenti e in ogni ambiente quotidiano era Shirley Hyman, la moglie del critico letterario, una madre, una casalinga.
Ecco, in questo volume la scrittura e l’identità di scrittrice forse non si palesano tanto apertamente ma ne pervadono ogni pagina: è nelle pieghe del tempo, è nello sguardo con cui osserva la sua famiglia e il mondo e lo ricrea sulla pagina, è in quelle stilettate di cui si diceva, è in quella stessa ironia pungente con cui racconta la loro quotidianità. In queste pagine non menziona mai quelle due ore in cui tornava a essere sé stessa, come non menziona un mucchio di altre cose – i tradimenti del marito, per esempio, i propri successi letterari – ma non vogliono dire che non esistano e, anzi, sono ciò che la àncora alla vita, alla famiglia stessa in un certo senso, alla quotidianità in provincia. Quella «vita professionale» che qui menziona quasi di sfuggita permea ogni pagina e non mi stanco mai di ironizzare sul fatto che oggi tra i coniugi Hyman è il nome di Shirley Jackson a essere noto al mondo e di sicuro non in rapporto a un dato ruolo famigliare. L’ironia come cifra stilistica di questi scritti, dunque, ma da cui traspare pure un certo disincanto con cui osservare la vita di provincia, la ripetitività del quotidiano, le sue frustrazioni:
Non ho mai trovato, dicevo, uno stile di vita preferibile a questo; l’unico difetto – a parte la fatica massacrante e la perfida pastafrolla che non vuole saperne di dorarsi – è che va avanti sempre uguale, all’infinito, apparentemente senza alcun cambiamento sostanziale. Osservo i miei vicini e ho l’impressione che siano soddisfatti di vivere così, limitandosi a mettere a frutto giornate tutte uguali e, sebbene sia di sicuro il modo migliore di passare il tempo, diciamo che ci si diverte poco o niente. (p. 26)
Dicevo all’inizio che Vita tra i selvaggi è solo in apparenza tanto diverso dal più noto apparato bibliografico dell’autrice perché la voce, la postura autoriale, l’ironia che lo attraversa, ciò che appare palesemente sulla pagina e ciò che è sotto la superficie corrono da un testo all’altro, in proporzioni diverse. Ed è qui il genio di Jackson, la vivacità di una voce che non accetta etichette troppo rigide e letture superficiali e che, in un modo o nell’altro, scardina qualche stereotipo e mette alla prova i lettori, del suo tempo come il pubblico attuale.
La sua scrittura è uno dei misteri più intriganti della letteratura, che si rinnova a ogni nuovo lettore che ne scopre le storie. Ecco, sulla ricezione pure ci sarebbe molto da dire, tanto da un punto di vista critico che di scelte editoriali e verrà il tempo e il luogo per approfondire la questione, ma un aspetto almeno mi preme qui velocemente considerare: al netto del plauso ad Adelphi per aver reso disponibile al lettore italiano un numero congruo di romanzi e racconti di Shirley Jackson, non ho mai potuto fare a meno di interrogarmi – e il discorso vale anche per altri autori e altri cataloghi editoriali, sia chiaro – sulle ragioni che hanno spinto a costruire proprio in questo modo il corpus letterario italiano dell’autrice, pescando da una raccolta all’altra, portando moltissimo e allo stesso tempo lasciando altrettanto fuori. Non ci resta che aspettare, dunque, augurandoci che tutto quanto uscito dalla penna di questa autrice straordinaria diventi pienamente disponibile anche per il pubblico italiano. E sperare che in futuro, chissà, salterà pure fuori un altro baule pieno di storie e manoscritti, consegnato agli eredi un po’ sorpresi, come quello che anni fa venne recapitato loro scovato in un vecchio fienile nel Vermont.
Debora Lambruschini

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